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Il trionfo di Woody Allen sulle storture del Me Too

Dopo lo scandalo molestie, l’ovazione della Scala segna la rivincita del genietto newyorchese

 

Alcuni applausi hanno un sapore più dolce di altri. Non profumano solo di vittoria, ma di rivalsa. Se a ciò si aggiunge il fascino imperituro della Scala di Milano, si spiega forse il fuori programma che Woody Allen ha regalato al pubblico meneghino.

Non era infatti previsto che il genietto di Brooklyn salisse sul palcoscenico, al termine della prima del pucciniano Gianni Schicchi – in scena fino al 19 luglio. Anzi, malgrado ne avesse curato la regia, aveva preferito assistere alla rappresentazione dall’ultima fila del palco centrale: per non rubare la scena agli interpreti, si era detto, o forse solo per la sua estrema timidezza.

Poi, però, la fragorosa ovazione degli astanti si è diffusa come una scarica elettrica, invocando il regista newyorchese, chiamandolo fuori dal suo riparo, quasi costringendolo ad apparire sotto le luci della ribalta per rispondere a quest’onda vibrante d’affetto.

E poco importa se le acclamazioni erano un tributo alla carriera di Allen o alla sua interpretazione dell’opera di Puccini – di cui ha, tra l’altro, modificato il finale. L’iconico regista, che pure è apparso spaesato, confuso, è sembrato averne un gran bisogno dopo un periodo che definire difficile è un eufemismo.

Il culmine era stato probabilmente raggiunto con il “tradimento” di Amazon, che avrebbe dovuto produrre il suo ultimo film, salvo metterlo in stand-by dopo mesi di gogna mediatica. Woody Allen è stato probabilmente la vittima sacrificale più illustre del Me Too, movimento che pure era nato con le migliori intenzioni – giacché anche una sola donna molestata sarebbe di troppo. Tuttavia, dal momento che la via per l’inferno è proverbialmente lastricata di buone intenzioni, il Me Too non ha tardato a tramutarsi in un sadico Moloch che, spesso senza prove e sulla “parola” di autentiche mitomani in cerca di attenzione, non ha risparmiato le vittime di ignobili calunnie.

Il caso di Allen ha rappresentato senza dubbio il punto più vergognosamente basso di questa distorsione, dal momento che il genio della Grande Mela era già stato assolto dall’infamante accusa di aver abusato della figlia adottiva Dylan Farrow – e, in base al principio giuridico del Ne bis in idem, non si può essere processati due volte per lo stesso reato. In epoca di isterie collettive, però, la verità diventa qualcosa di tremendamente relativo, e Allen si è quindi trovato nella paradossale condizione di essere innocente per la giustizia e colpevole per il circo Barnum, e per i complici media mainstream, autoproclamatisi giudice, giuria e boia di questa moderna caccia alle streghe – anzi, agli stregoni.

Per questo, il trionfo milanese assume una valenza ancora maggiore. E, peraltro, si carica anche di un certo simbolismo, se si pensa che Gianni Schicchi (il personaggio) è un homo novus che con la propria astuzia riesce a beffare i membri dell’aristocrazia fiorentina che lo hanno sempre disprezzato.

Gianni come Woody, insomma, ma anche Allen come Puccini. I due avevano parecchio in comune, tra cui una vena ironica intelligente e sagace. Per dire, il grande compositore, che negli ultimi mesi di vita era stato nominato alla Camera Alta, prese l’abitudine di firmare le sue lettere con il titolo di “Sonatore del Regno”. Nessun dubbio che il regista di Brooklyn, il cui protagonista di Misterioso Omicidio a Manhatthan affermava di apprezzare Wagner “anche se ogni volta che lo sento mi viene voglia di invadere la Polonia”, avrebbe gradito.