Una delle principali chimere da sempre inseguite dall’umanità, soprattutto nella fase del predominio alchemico, è certamente l’eterna giovinezza. Un elisir, una sostanza, un manufatto in grado di donare l’immortalità o riportare al vigore della gioventù sono stati ricercati per secoli: eppure, malgrado tutti gli sforzi, sono rimasti materia per opere letterarie come Harry Potter e la pietra filosofale, o cinematografiche come Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare, quarto capitolo della saga che ha per protagonista Johnny Depp nei panni dell’iconico filibustiere Jack Sparrow.
Dove però non poté l’esoterismo, si sta forse avvicinando la scienza: è stata infatti annunciata una scoperta sensazionale, che potrebbe avere ripercussioni importantissime sulla cura di patologie neurodegenerative come l’Alzheimer. Una scoperta operata da un team italiano, coordinato da tre scienziati della Fondazione EBRI (l’European Brain Research Institute, fondato a Roma da Rita Levi Montalcini) in collaborazione con il CNR, la Fondazione IRCCS Santa Lucia, la Normale di Pisa e l’Università Roma Tre.
Lo studio, pubblicato sulla rivista specialistica Cell Death & Differentiation (una sorta di spin off di Nature), si è concentrato su un particolare anticorpo di nome scFvA13-KDEL, per gli amici A13: si tratta di una molecola in grado di favorire la neurogenesi, cioè la nascita di (nuovi) neuroni, un processo che di norma dura tutta la vita ma diminuisce drammaticamente se insorgono malattie come, appunto, l’Alzheimer.
In questa specifica sindrome, la colpa di tale crollo è di una proteina chiamata β-amiloide, responsabile della formazione di aggregati tossici (gli Aβ oligomeri) che si accumulano nelle cellule staminali neurali (i precursori dei neuroni), impedendo alle nuove cellule cerebrali di venire al mondo: come dei kamikaze fisiologici specializzati nella macabra soppressione dei nuovi virgulti.
Gli scienziati dell’EBRI, però, hanno interrotto questo meccanismo perverso introducendo l’anticorpo A13 direttamente nel cervello di topi geneticamente modificati dell’età di un mese e mezzo: periodo considerato prodromico rispetto all’accumulo degli Aβ oligomeri, benché non si manifestino ancora i sintomi della neurodegenerazione. In tal modo, gli studiosi sono riusciti a recuperare quasi del tutto i deficit causati dalla fase iniziale della malattia di Alzheimer, ottenendo in pratica il “ringiovanimento” del cervello.
Certo, si tratta solo di un primo stadio, e l’eventuale traslazione dei trials clinici dalle cavie all’uomo richiederà ancora anni. Per la prima volta, però, è stato possibile neutralizzare i “terroristi biologici” prima che infliggessero danni irreversibili all’organismo.
La ricerca apre quindi la strada a nuove strategie per diagnosticare la malattia a uno stadio ancora molto precoce, nonché per studiare terapie che colpiscano gli Aβ oligomeri appena si formano dentro i neuroni. Donando forse una nuova speranza ai milioni di pazienti che in tutto il mondo lottano contro uno dei più terribili tra i morbi.
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