È ormai ufficiale che Twitter influenzò le Presidenziali Usa del 2020, sopprimendo scientemente un caso che avrebbe messo in grossa difficoltà Joe Biden. A rivelarlo è stato proprio Elon Musk, neo-proprietario della piattaforma da 280 caratteri. Che ha rilanciato un’inchiesta che svela alcuni torbidi segreti (di Pulcinella) della Big Tech di San Francisco.
I Twitter Files
Un sistema che censurava arbitrariamente e deliberatamente post e account “sgraditi” alla politica, e in particolare al Partito Democratico (quello americano). Lo ha scoperchiato, come riporta il Corsera, il giornalista Matt Taibbi, collaboratore della rivista Rolling Stones, pubblicando una serie di documenti interni al social network. Divenuti rapidamente virali anche e soprattutto perché rilanciati dall’attuale Ceo Musk.
Il cronista, aggiunge Rai News, ha specificato che a livello di richieste di bavaglio vigeva la par condicio. Tuttavia, gli interventi erano nettamente sbilanciati a favore del partito dell’Asinello, perché la stragrande maggioranza dei dipendenti dell’azienda californiana era costituita da «donatori alla campagna democratica».
In questo quadro, particolarmente grave è stato l’occultamento dello scoop del New York Post su Hunter Biden, secondogenito di Sleepy Joe. Le cui e-mail, ripescate in un laptop da lui stesso “abbandonato” in un’officina di riparazione nel Delaware, gettavano una luce inquietante sui traffici opachi “di famiglia”. Che coinvolgevano direttamente l’ex vicepresidente di Barack Obama, e segnatamente i suoi legami d’affari con società energetiche in orbita cinese e ucraina.
La censura dello scoop su Hunter Biden
Si era a circa tre settimane dalle Elezioni Presidenziali, e un simile scandalo avrebbe potuto azzoppare la corsa del candidato dem. Così arrivò il soccorso di Twitter, che giunse a prendere provvedimenti quali il divieto di diffondere il link all’articolo anche tramite messaggio diretto. Una misura eccezionale adottata in casi estremi, come i contenuti pedopornografici. E che portò alla sospensione del profilo del quotidiano della Grande Mela, ma anche – tra l’altro – di quello dell’allora portavoce della Casa Bianca Kayleigh McEnany.
Il tutto avvenne con il pretesto (poi rivelatosi falso, ma già in quel momento assai poco convincente) che si trattava di materiale hackerato. E avvenne all’insaputa perfino dell’allora Amministratore Delegato del social dell’uccellino, Jack Dorsey, che in seguito avrebbe definito l’insabbiamento «più grave della stessa storia».
L’imprenditore sudafricano ha anticipato che ci sarà almeno un’altra puntata dei cosiddetti “Twitter Files”, che comunque già consentono di trarre alcune conclusioni. Soprattutto sui rischi per la libertà d’espressione connaturati all’esistenza di un orwelliano (e autoproclamato) Miniver virtuale. Che, en passant, sosteneva che «il Primo Emendamento [la norma costituzionale che tutela il free speech negli Stati Uniti, N.d.R.] non è assoluto».
In effetti, chi già esce con le ossa rotte da questa vicenda sono i fact-checkers, i “controllori” della veridicità delle notizie. Che dovrebbero garantire competenza e imparzialità, e invece hanno dimostrato (una volta di più) di non possedere nessuno di questi due requisiti. Però si accusavano le manipolazioni di fantomatici hacker russi. Com’è vero che “un bel tacer non fu mai scritto”…
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